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IL VASTO: NOTA AL MARGINE DEL MEDITERRANEO

di: Maria Pia Amore

Parole chiave:  margine, città meticcia, città informale, slow violence, rischio, conflitto sociale, progetto/processo

1. Il Mediterraneo: Vasto margine

 

Se «il Mediterraneo è mille cose insieme, non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi, non un mare, ma una successione di mari, non una civiltà ma successive civiltà accatastate una sopra l’altra»[1] che cos’è Napoli mediterranea? Uno dei suoi grandi cantautori, collaborando ad alimentare alcuni dei cliché con cui si prova a raccontare questa città, alle mille cose di Braudel aggiungeva mille colori, mille paure e l’odore del mare.

Nell’immagine abusata di una Napoli caleidoscopica, dalle profonde contraddizioni, si può pensare che i mille colori cui si riferisce la celebre canzone non siano solo i suoi stereotipati rosso del sangue di San Gennaro, giallo del tipico tufo e blu del lembo di mediterraneo, ma anche quelli della pelle di tutti i suoi abitanti, autoctoni –con antenati normanni, spagnoli, francesi – e immigrati. Aggiungendo ai colori le paure e l’odore del mare si può provare a descrivere un pezzo di questo eccezionale frammento di mediterraneità contemporanea, articolando la riflessione attraverso un tema, il margine, e un luogo, il Vasto.

 

“Mare internum” e “in mezzo alle terre”, il Mediterraneo materializza l’idea stessa di margine, luogo di transizione tra cose: terre e uomini tenuti insieme e contemporaneamente separati da una distesa di acqua salata. Un mare come spazio, distanza che costruisce una superficie intermedia dove Napoli è, tra le altre città costiere del sud dello Stivale - e sud dell’Europa -limen, soglia e ingresso.

Si può provare a definire, in termini generali, il margine come uno spazio fisico e simbolico di transizione: è spazio che circonda qualcosa, che accade al suo termine, che è in posizione intermedia; è spazio che filtra e consente il passaggio da uno stato all’altro, da un luogo a un altro; è spazio che innesca o può innescare relazioni. In questi termini è facile figurarsi il Mediterraneo come un ampio margine. Attraversato e percorso da sempre da uomini in viaggio per i più disparati motivi, il Mediterraneo, crocevia di popoli in cerca di asilo, è negli ultimi tempi, inoltre, l’immagine drammatica, mediaticamente cavalcata e politicamente manipolata, di questioni articolate e irrisolte legate ai fenomeni migratori. Con la sua forma ampia e allungata, che si incunea separando l’Europa dall’Africa e dal Medio Oriente, il Mar Mediterraneo è dunque la superficie di mezzo su cui la politica italiana ha deciso di giocare un improbo braccio di ferro con l’Unione Europea sul tema migrazione. Immagini shock, porti chiusi e slogan infelici - come il tristemente noto “aiutiamoli a casa loro” - si sono susseguiti nella narrazione di un fenomeno complesso che proprio lungo le linee di costa ha visto disputare le sue più dure partite. L’attenzione politica e mediatica allo “sbarco” di migranti in Italia ha contribuito ad accentuare la circospezione con cui alcuni già guardavano alle comunità straniere insediate sul territorio e a palesare, con più facilità, l’insofferenza discriminante per cui lo straniero è l’altro che non si è disposti ad accogliere. In questo clima di sibilante razzismo e in questo scenario in cui il Mar Mediterraneo è medium su molteplici piani, Napoli con il rione Vasto si configura come uno specifico punto di questo grande margine in cui le questioni si addensano fino a diventare drammaticamente evidenti e potenzialmente paradigmatiche.

Napoli pone una sfida costante all’integrazione di mondi diversi, resa plasticamente dalla sua stessa conformazione urbanistica. Lo stesso concetto di periferia a Napoli non ha il significato tradizionale, potendo situazioni di emarginazione ed esclusione sociale interessare anche zone centralissime del capoluogo, con una marcata difficoltà di dialogo tra le diverse componenti sociali. La città, pertanto, accanto a una non comune capacità di apertura e accettazione della diversità, frutto della sua storia millenaria di contaminazione di culture diverse, evidenzia forti contraddizioni e difficoltà di coesione, suscettibili di sfociare in vera e propria conflittualità sociale.”[2]

Caratterizzato da un rigido impianto planimetrico tipicamente ottocentesco, con cortine edilizie disposte lungo arterie stradali ortogonali, il rione Vasto si innesta, in epoca di Risanamento, ad est delle mura aragonesi, in un’area compresa tra piazza Garibaldi, l’Arenaccia e Poggioreale(FIG.1). Coevo agli altri quartieri di espansione residenziale che hanno spinto la città a distendersi sul territorio in maniera più o meno isotropa, il Vasto, porzione del quartiere san Lorenzo che annette anche una parte della Vicaria, dagli anni ’80 ad oggi, ha subito profonde trasformazioni di carattere prevalentemente socio-economico, avvicendatesi in un tessuto pressoché immutato. L’area ha storicamente “accolto” gruppi sociali a rischio segregazione (famiglie in condizioni di disagio, senzatetto, immigrati), materializzando molte sfaccettature del tema del margine. La condizione di marginalità infatti non è legata necessariamente ad una posizione geografica o a una relazione spaziale definita: esistono margini esterni relativi ai confini, margini interni tra due quartieri, tra due porzioni equivalenti di città, margini materiali e margini non fisicamente tangibili. Le accezioni del termine sono varie e spesso interrelate. Esistono marginalità sociali, culturali, economiche, etniche, che sono in senso lato e generale le condizioni che toccano chi è “emarginato”, colui che, sconfitto dal sistema (scolastico, economico, politico, etc.), non vi si sa o non vi si può adattare: il margine rimanda necessariamente all’idea di un luogo centrale, di un punto di riferimento da cui solo gli emarginati rimangono esclusi[3]. Permane una relazione di esclusione rispetto ad un baricentro del sistema condiviso, rispetto al quale la marginalità è esterna: un rapporto ancora spaziale, dove il dentro e il fuori non si riferiscono a condizioni puramente geografiche ma a realtà più complesse. Marginale non è ciò che si colloca in posizione periferica, ma ciò che è nella condizione di periferia (urbana, materiale, umana).

 

2. Dove c’è il pericolo…

Roberta Amirante, autrice dell’articolo “Ammainare le Vele”in questo stesso numero e riferimento prezioso del mio percorso accademico, è solita citare il celebre verso “Dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”[4]di Friedrich Hölderlin, verso ripreso da Martin Heidegger nella “questione della tecnica”. Il termine pericolo, dal lat. pericŭlu(m), in relazione alle mille paure dell’introduzione, è qui richiamato in una doppia accezione: quello di “prova” e quello di “rischio”.

La prova, l’esperimento di cui questo scritto lascia traccia è quella di un gruppo di ricerca che ha avviato nel 2019 un laboratorio permanente sulla città informale – l’Informal City Design Studio – tentando di superare più limiti contemporaneamente: quelli tra le competenze specialistiche dei settori disciplinari, quelli tra docenti, studenti e istituzioni, quelli tra accademia e mondo reale. Il laboratorio ha definito uno spazio inedito di confronto sulla città contemporanea, considerata nella sua estensione materiale e immateriale (fisica, politica, economica, sociale, culturale, etc), che ha chiamato in gioco attori insoliti per un percorso di ricerca universitario – dall’assessore all’Urbanistica a quello alle Politiche Sociali a quello all’ Ambiente del comune di Napoli, ma anche alle associazioni e ai singoli che abitano la città. Della città, in realtà, il gruppo di ricerca ha individuato una parte non convenzionalmente riconosciuta - o forse sarebbe meglio dire non “tradizionalmente” indagata - quella informale[5], ovvero quella definita in opposizione a ciò che è inerente alla forma e conforme alle regole. Il Vasto è stato dunque assunto come area studio perché innanzitutto capace di mettere chiaramente in evidenza l’esistenza di una dimensione urbana complessa, penetrata dentro e oltre le regole delle forme della città moderna.

La seconda accezione del pericolo sta nel termine rischio, usato nel linguaggio comune erroneamente come sinonimo[6].L’occasione di riflessione sul rischio è stata fornita dall’ i-Rec – Oeuvre durablestudentcompetition. 9th studentcompetition – IATROGENESIS. Disrupting the status quo: Resistingdisasterriskcreation, 2019, un concorso internazionale di architettura che invita i partecipanti a esplorare metodi innovativi per affrontare le cause profonde della vulnerabilità in un contesto di disastri in corso e a presentare uno scenario per il riassetto di soggetti, azioni e risorse in tali condizioni. L’eterogeneo gruppo di lavoro[7] ha convenuto su un’inconsueta interpretazione delle richieste del bando di concorso, mettendo in campo l’ipotesi di poter efficacemente declinare il tema del rischio in chiave sociale, affrontando non un sistema strettamente naturale – come generalmente accade in questo tipo di competizione – ma un sistema più complesso, urbano e umano. Un approccio che ha messo in luce la capacità del progetto di assumere una dimensione multidisciplinare e processuale, di rispondere alle sfide complesse della contemporaneità in modo non autoreferenziale e di saper far fronte a una, spesso dimenticata, responsabilità civile dell’Architettura. L’audace posizione, riconosciuta e premiata dalla commissione con il primo premio(FIG.2), ha quindi individuato nel Vasto un rischio percepito – e reso manifesto nelle tensione con le comunità straniere insediate, al centro di un dibattito locale e nazionale – nel conflitto sociale.

 

3. Vasto: (fig.) che ha grande entità e rilevanza

Lo sfaccettato termine margine richiama, ancora, un’idea di labilità, di deformabilità: il carattere delle aree marginali è, in generale, instabile e mutevole; gli elementi di riferimento e gli assetti cui ancorarsi sono fragili; si presentano come spazi ambigui, in-formi o deformati da trasformazioni disarticolate.

Il Vasto si configura come una parte urbana caratterizzata (FIG.3) da una griglia di isolati a maglia quadrata, iscritta in una “figura” distintamente identificabile in planimetria come un quadrilatero irregolare spaccato a metà dall’asse di via Novara, strada a scorrimento veloce che rappresenta l’uscita della città verso l’aeroporto.

Il toponimo dell’area “Vasto”, corruzione dialettale del termine “guasto”, trova probabilmente origine nella natura paludosa e insalubre dell’area, dove numerosi rivoli d’acqua confluivano nella foce del Sebeto: una sorta di condizione urbana di scarto[8]ante litteram. Qui, nella più vicina periferia della città storica, è dove il centro ha espulso le funzioni “scomode” - le concerie, le fabbriche, i cimiteri, il carcere. Un’area fuori le mura, esterna, marginale che l’attuale conurbazione metropolitana – che ha saldato in un continuum ininterrotto la struttura urbana napoletana con quella dei comuni limitrofi – pone in posizione assolutamente centrale. Questa ossimorica area di margine baricentrica sembra essere precisamente definita da un sistema di limiti che la circoscrivono, separandola da realtà molto diverse: a nord l’asse di via Casanova e Via Poggioreale, a est lo smisurato centro Direzionale(FIG.4), a ovest la struttura porosa del Centro Antico(FIG.5) e a sud il vuoto della piazza della stazione(FIG.6). Ciascuno di questi elementi liminali ha esercitato nel tempo una “pressione” variabile sul Vasto, deformandone l’impianto regolare. Una deformazione (FIG.7)dissimulata che in tempi recenti si è palesata in molte occasioni: periferia nel centro, il Vasto è la rappresentazione di una Napoli inospitale, degradata e pericolosa. Una rapida ricerca sul web può confermare, con titoli spesso strumentalmente ridondanti, la persistenza di una condizione critica legata principalmente alla presenza di stranieri nell’area. Alla drammatica immagine mediatica raccontata dai media e a quella perfettamente geometrica e regolare che regala una vista zenitale, si aggiunge quella percettiva di chi attraversa oggi questo luogo: frammenti dispersi, mercati affollati, abbandono e usi informali. Le contraddizioni evidenti a chi percorre il Vasto sono efficacemente sintetizzate dalla vicenda legata al progetto Grandi Stazioni che ha interessato la stazione di Piazza Garibaldi costruita nel 1958 e trasformata dal progetto di Dominique Perrot in una stazione di “quarta generazione”, ovvero uno spazio pubblico con una grande mall commerciale. Il progetto della nuova piazza, con i suoi franchising e i suoi nuovi parcheggi, intercetta e interferisce con il riconosciuto e regolamentato mercato interetnico di via Bologna: il bordo sud del Vasto si configura oggi come un nuovo territorio di scontro tra le regole della città globale e le pratiche della città meticcia.

 

L’area del Vasto, relativamente piccola ma chiaramente identificabile dal perimetro su indicato, diventa il dispositivo per pensare a una dimensione del rischio comune a molti di quei frammenti in cui la città contemporanea si è disarticolata, un rischio rintracciabile in quei luoghi marginali spesso caratterizzati da una progressiva perdita di valore immobiliare e di declino sociale ed economico: si tratta di quei frammenti della “città dei poveri”[9]dove si insediano o vengono spesso confinate le comunità di soggetti “deboli” come quelle immigrate (FIG.9). (Non?)-Luoghi[10] caratterizzati da bassissimi canoni di locazione e da scarsità di controllo dove le nuove comunità sperimentano la possibilità di riproporre modelli e usi diversi da quelli delle comunità ospitanti, ingenerando in chi già c’era la sensazione di subire l’interferenza di un ulteriore coefficiente di degrado. Così molte volte la maggior parte degli individui che costituiscono la comunità ospitante originaria tenta di migrare appena le proprie condizioni economiche lo rendono possibile: in questo meccanismo può accadere, e di frequente accade, che il rapporto quantitativo tra ospitanti e ospiti si inverta e che questi luoghi si trasformino in forme di enclave nelle quali gli “ospiti” tendono a ricostruire i propri modelli abitativi in maniera informale e provvisoria[11] (Schon ,Rein, 1994).

Per riassumere l’articolata successione di vicende (FIG.8) che hanno determinato l’attuale condizione del Vasto si è preso in prestito da Rob Nixon[12] il concetto della Slow Violence ovvero di un tipo di violenza incrementale le cui cause e i cui effetti si dispiegano in tempi molto lunghi: una violenza silente, tale da essere inconsapevolmente accettata da chi la subisce fino a quando non raggiunge un picco.“By slow violence I mean a violence that occurs gradually and out of sight, a violence of delayed destruction that is dispersed across time and space, an attritional violence that is typically not viewed as violence at all. Violence is customarily conceived as an event or action that is immediate in time, explosive and spectacular in space, and as erupting into instant sensational visibility”[13] . Nelle aree marginali e nei quartieri poveri come il Vasto esistono rischi cronicizzati nella società e sedimentati negli insediamenti umani che non hanno la risonanza dei grandi eventi calamitosi naturali come gli uragani, gli tsunami, i terremoti, o di quelli (dis)umani come le guerre o gli attacchi terroristici: si tratta, in genere, di situazioni entro le quali componenti ecologiche, sociali e culturali concorrono a definire uno scenario in cui una concatenazione di effetti perversi si accrescono e si sovrappongono, venendo a costituire le basi di processi di cronicizzazione che, nel lungo periodo, producono ricadute gravi come quelle generate dalle calamità ad impatto repentino.

4. Rimarginare/reimmaginare

Il Vasto, al margine delle tre grandi polarità che lo comprimono – il centro direzionale, la Nuova stazione Garibaldi e il centro antico, patrimonio dell’Umanità – assorbe parzialmente i fenomeni migratori che interessano la città a partire dagli anni ’70. Attualmente, dal punto di vista sociale e culturale l’area del Vasto è, sul territorio napoletano, quella caratterizzata dalla maggiore compresenza di comunità differenti[14].  Ognuna di queste comunità è portatrice di culture e tradizioni profondamente diverse che riverberano nello spazio urbano e si manifestano in usi, a volte tra loro stridenti, dello spazio pubblico (FIG.9, FIG.10).

Al nucleo di abitanti autoctono, “le famiglie dei ferrovieri”, si sono aggiunti nel tempo gli sfollati del terremoto, la comunità senegalese arrivata negli anni ’90, quella cinese – che si è poi spostata verso il vicino quartiere san Giovanni – e le nuove comunità di immigrati arrivate nel 2011. In un processo, allineato alle dinamiche nazionali, che ha visto la regione Campania da territorio di transito diventare nel corso del nuovo millennio un’area di insediamento stabile, la concentrazione di Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) all’interno o nell’immediato intorno del Vasto –circa il 40% di quelli localizzati sull’intero territorio della città –  in un momento storico fortemente segnato dalle difficoltà di gestione del fenomeno migratorio, ha accelerato il lento andamento di questa violenza “sottotraccia”, manifestandosi in infelici episodi di tensione e rabbia: è probabilmente con la seconda ondata migratoria che le tensioni interne all’area, a lungo trattenute, sono esplose. L’incauta scelta della prefettura di localizzare nell’area ben 11 CAS, gestiti in alcuni casi come semplici dormitori, senza alcuna politica di integrazione o supporto di inserimento dei nuovi arrivati nella comunità host, ha riempito le strade di nuovi giovani senza lavoro, spesso facilmente reclutati nel giro delle attività illegali.

In questo intricato assetto, il laboratorio – che in stretta relazione al concorso ha poi approfondito il tema con cinque tesi di laurea – ha proposto una strategia progettuale/processuale capace di mettere a sistema le numerose sfaccettature che il tema pone. In tal senso assume particolare interesse la distinzione proposta da Sennett, mutata da Stephen Jay Gould, tra due tipi di margine: il limite/parete e il bordo/membrana. «Il limite è un confine dove le cose finiscono; il bordo è un confine dove diversi gruppi interagiscono. […] Prendiamo in considerazione un’altra situazione di confine, a livello cellulare, la distinzione cioè tra parete e membrana delle cellule. La parete della cellula trattiene tutto al suo interno, è analoga a un limite. La membrana della cellula, invece, è più aperta, permeabile, più somigliante a un bordo. Le differenze naturali tra limite/parete e bordo/membrane si rispecchiano nella forma edificata chiusa e aperta. La città moderna è oggi dominata dal limite/parete. L’habitat urbano è suddiviso in settori segregati dai flussi del traffico, dall’isolamento funzionale tra le varie zone destinate al lavoro, al commercio, alla famiglia, allo svolgimento delle funzioni pubbliche. Ne consegue un minor scambio tra le varie fasce sociali, economiche ed etniche. Noi ci proponiamo pertanto di costruire un bordo/membrana, non un limite/muro»[15]. L’idea di un bordo/membrana, in un così “confinato” contesto come quello del Vasto, riassume la volontà del gruppo di ricerca di lavorare con, e non contro, le enormi forze in gioco (la città fisica, quella economica, quella sociale), nell’ottica di poter contribuire ad aumentare la resilienza –termine abusato ma quanto mai pertinente – dell’area. Attraverso un lavoro sui bordi si è prefigurata una nuova attitudine del sistema chiuso e deformato del Vasto ad assorbire le azioni esterne senza implodere. Lungo i bordi, proprio dove il tessuto urbano ottocentesco ha lasciato pezzi sospesi e irrisolti, specialmente a nord ed est, si è definita una nuova infrastruttura per mettere a sistema reti materiali e immateriali presenti sul territorio: spazi urbani di rilievo, comunità scolastiche e religiose, artigiani, commercianti e associazioni (FIG.11, FIG.12). Individuati gli interstizi, i frammenti incompiuti e le anomalie lungo il perimetro si configurano undici hub, dispositivi spaziali di social innovation[16] - ovvero delle risorse strategiche per lo sviluppo della società in modo nuovo - capaci di aumentare la porosità dell’area e quindi i suoi scambi con l’esterno(FIG.13). All’interno di una strategia di cooperazione– che include la negoziazione e la mediazione come fasi del processo e che persegue una logica WIN-WIN –tra i soggetti delle diverse reti individuate, si dà forma a un’ipotesi diattivazione di un processo di progressiva e incrementale condivisione degli interessi di ciascuno degli attori (pubblici, privati, sociali) coinvolti (FIG.14, FIG.15, FIG.16).

L’esperienza sul Vasto, fortemente calata nelle specificità del caso, propone di fatto una metodologia per la decodificazione di assetti urbani complessi e stratificati, in cui la dimensione, strettamente fisica e costruita tradizionalmente intesa dell’architettura perde i suoi confini per entrare in relazione con le altre dimensioni della città contemporanea, oggi quanto mai determinanti. Ponendosi sul margine, ancora una volta e ancora nei suoi mille significati, il progetto può significativamente interpretare i temi che la città contraddittoria, imprevista, generica[17], multiculturale e multirazziale oggi pone. La Napoli mediterranea del 2020, che è davvero mille cose insieme, offre, attraverso questo spaccato sperimentale, un’opportunità di riflessione sulla capacità dell’architettura di immaginare un futuro (prossimo) in cui l’idea di un mare nostrum si svincoli da accezioni ingenuamente nazionaliste e scioccamente nostalgiche per delineare, attraverso un più “comune” uso dell’aggettivo possessivo nostro, città più aperte e condivise.

 

[1] Braudel F. (1987), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, Bompiani, Milano (ed. originale La Mediterranée, 1985)

[2] Lettera introduttiva del Prefetto Carmela Pagano al Rapporto sui cittadini stranieri residenti nella IV municipalità del comune di Napoli pubblicato nel 2019 dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni

[3] Augé M., Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, ed. Bruno Mondadori, Milano 2007, p.19

[4] Il verso in questione è tratto dall’inno Patmos, reperibile in Friedrich Hölderlin, Le liriche, a cura di E. Mandruzzato, Milano, Adelphi,1993 (ed. 2008), pp. 666-681. Citato da Martin Heidegger, Perché i poeti?, in id., Sentieri interrotti, presentazione e tr. it. di P. Chiodi, Firenze, La Nuova Italia 1968,(ed.1984), p. 273.

[5] Cfr. Laguerre M.S., The Informal city, St. Martin’s Press, New York, 1994

[6] Il D. lgs. 81/08 chiarisce inequivocabilmente la differenza tra i due concetti: l’art. 2, lettera r, del decreto definisce il pericolo come “proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni”, mentre alla lettera s, definisce il rischio come “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione ad un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione”. Il concetto di pericolo riguarda, quindi, la capacità potenziale di provocare un danno alle persone e non ha alcuna utilità fornirne una stima mentre rischio è un termine che richiama una nozione probabilistica, in quanto esprime appunto la probabilità che si verifichi un evento in grado di causare un danno alle persone.

[7] Studenti: Ciro Commitante, Antonio Di Giorgio, Simona Makoski, Mariagrazia Serafino, Eliana Staiano. Turor: Paola Scala (coordinamento), Massimo Perriccioli, Laura Lieto, Maria Cerreta, Maria Federica Palestino, Maria Rosaria Santangelo, Maria Pia Amore, Claudia Chirianni, Francesca Talevi, Giovangiuseppe Vannelli.

[8] Cfr. Lynch K., Deperire. Rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, a cura di M. Southworth, CUEN, Napoli, 1992; Berger A., Drosscape. Wasting land in urban America, Princeton Architectural Press, New York, 2006; Marini S., Nuove Terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet Studio, Macerata, 2010

[9] Secchi B., La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza Edizioni, Roma-Bari,2013

[10] Foucault M., Eterotropie: luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 1994.

[11] Schon D., Rein M., Frame reflection. Toward the Resolution of Intractable Policy controversies, Basic Books, New York 1994

[12] Cfr. Nixon R., Slow Violence and the Environmentalism of the Poor,  Harvard university press Cambridge, Massachusetts and London 2011

[13] Ivi p. 2.

[14] L’immigrazione costituisce un fenomeno molto sfaccettato che si presenta sotto svariate forme, dai richiedenti asilo, ai migranti di lungo periodo, dagli irregolari che vivono di espedienti nel magma delle città contemporanea, alle donne vittime di tratta, ai minori non accompagnati: i numeri con i quali si prova descrivere la realtà sono parziali ma aiutano a dare misura del fenomeno. Si legge nel Rapporto sui cittadini stranieri residenti nella IV municipalità del comune di Napoli pubblicato nel 2019 dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni che Napoli è la quarta città metropolitana per numero di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia; al 1° gennaio 2019 sono 134.338 le persone con cittadinanza straniera residenti nell’area, pari al 4,4 per cento degli abitanti del territorio metropolitano (ISTAT, 2019). Nel Comune di Napoli, suddiviso in dieci Municipalità, gli stranieri regolarmente soggiornanti sono complessivamente 60.260, rappresentando il 6,3 per cento della popolazione residente (ISTAT, 2019). Tale valore risulta quasi triplicato negli ultimi dieci anni (al 1° gennaio 2009, i residenti stranieri risultavano, infatti, 24.384). La IV Municipalità, cui appartiene il Vasto, si attesta come l’area del Comune di Napoli con la più alta percentuale di cittadini di Paesi terzi. Su 99.321 residenti complessivi, infatti, 15.571 sono stranieri, con un’incidenza pari al 15,3 per cento sul totale. Il 94 per cento di questa è di origine non comunitaria; il gruppo non comunitario più numeroso è costituito dalla comunità cinese, che rappresenta il 24 per cento degli stranieri residenti nella Municipalità, seguito dalla comunità pakistana (11%) e da quella ucraina (9). L’8 per cento dei cittadini stranieri nella IV Municipalità è di origine cingalese, a seguire, le altre nazionalità, nigeriana (5%), senegalese (5%) e dominicana, con un’incidenza uguale a quella algerina, romena e bengalese (3%).

[15] Il «Corriere della sera» del 13 aprile 2013 riporta una parte della relazione che il sociologo americano Richard Sennett, docente alla New York University e alla London School of Economics, ha tenuto al convegno internazionale in onore di Guido Martinotti (1938-2012) che si è svolto all’Università degli Studi Milano-Bicocca. La distinzionetraborder e boundary era giàstatadescritta da Sennet in Reflection on the Public Realm, in G. Bridge and S. Watson, A Companion to the City, , Blackwell, Oxford, 2003, pp.380-387; «Edges come in two forms, as border or as boundaries. This is an important distinction in the natural world. In naturals ecologies, borders are the zones in a habitat where organisms become more interactive, due to the meeting of different speciesor physical conditions. The boundary is a limit, a territory beyond which a particular species does not stay». Sennett R., Boundaries and Borders, in AA.VV.,Living in the Endless City, Phaidon, Londra, 2011, pp. 325-326. Per un più ampio approfondimento cfr.Sennet R., Costruire e abitare. Etica per la città, FeltrinelliEditore, Milano, 2018 (ed.originale Building and Dwelling Ethics for the City, Farrar, Status and Giroux, New York, 2018)

[16]Cfr. Mulgan G., Social Innovation: How Societies Find the Power to Change, Policy Press,Univerity of Bristol, Bristol, 2019

[17] MauB.,Koolhaas R., S, M, L, XL: Small, Medium, Large, Extra-Large,  The Monacelli Press, New York, 1995, pp. 1239-1264

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